Il seminatore uscì a seminare – XV domenica del tempo ordinario, anno A

“Il seminatore uscì a seminare” (Mt 13,3).

Gli ultimi mesi sono stati faticosi per molti di noi per il dramma della malattia e in molti casi della morte, per le restrizioni dovute al lockdown e le conseguenze economiche ma anche per dei profondi, silenti o espliciti, drammi spirituali. Mentre alcuni credenti si sono aggrappati con tenacia al Signore, molti altri hanno sentito venire meno la presenza di Dio, l’insorgere di domande radicali che non sono sfociate in risposte significative, il rifiuto di lui carico di conflitto o il semplice abbandono della fede. Questi mesi di Covid-19, ma anche il continuo agire omertoso di chi non vuole vedere, sentire, condannare i drammi dei poveri, come pure l’intiepidirsi della fede nel cuore di tanti credenti e comunità e il diminuire di giovani che compiono scelte generose di fede e di sequela del Signore… sembrano dirci che in questo momento storico il Signore è poco interessato alla nostra vicenda o, addirittura, che pure la Chiesa non è nei suoi interessi.

Una buona notizia, tuttavia, ci raggiunge: Dio è uscito dalla sua dimora e sta camminando sui nostri campi e per le nostre strade. Ha una bisaccia colma di semi che sta gettando gratuitamente dovunque egli passa. Dio è uscito a seminare nella terra, tra noi, vicino a noi e in noi, lasciando cadere il seme in ogni luogo, senza distinzione. Non si racconta nella parabola di questa domenica che sia ancora rientrato: è ancora fuori a seminare, semina in ogni tempo, anche il nostro, anche adesso. L’andare è silenzioso e solitario, discreto: lavora senza fare rumore e nel nascondimento, correndo il rischio di non essere riconosciuto. Forse è anche per questo che fatichiamo ad accorgerci della sua presenza ora come nei mesi passati: d’altra parte, molte volte si coglie il passaggio di un seminatore quando, dopo un po’ di tempo e una pioggia primaverile, si vedono i germogli del seme.

La buona notizia, poi, è che il Signore sta seminando e ha seminato anche in questi mesi. Senza far rumore, nel caos provocato dall’emergenza sanitaria e dalla paura del Covid-19, Dio ha fatto risuonare parole come caducità, fragilità, eternità, cura premurosa, ridimensionamento, corresponsabilità, interiorità,… Abbiamo preso maggior consapevolezza della nostra provvisorietà in questo mondo, della fragilità che ci caratterizza e ci rende vulnerabili in ogni istante ma nel silenzio di tante domande e preghiera abbiamo sentito risuonare anche la nostra chiamata all’eternità (cfr Rom 85,20ss), il nostro essere ora e sempre oggetto delle cure premurose e tenere di Dio. La semplice mascherina a cui ormai ci stiamo abituando ci ha fatto accorgere che non siamo noi il centro del mondo, che accanto a noi ci sono altre persone e fra loro potrebbero essercene di più deboli di noi e così ci siamo scoperti chiamati ancora una volta alla corresponsabilità del vivere insieme, della solidarietà, della cura reciproca, fraterna. Piano piano sono venute meno tante certezze o ritenute tali: abbiamo riscoperto la vita di casa e della casa interiore, quella stanza intima dove abita lo Spirito di Dio che continuamente ci chiama alla vita vera, alla comunione con Dio e con gli altri. Possiamo ancora dire che Dio è assente e silenzioso? O piuttosto non possiamo accogliere come buona notizia la sua presenza e l’abbondanza del seme da lui gettato nella terra, germe che chiama la creazione all’eternità, a compiere quel parto che la fa gemere ma è promessa di vita nuova?

La parola gettata sta interpellando tutti noi ad essere terreno buono: ci ha chiamati e ci chiama, ci scuote dalle nostre sordità. Ci chiama a dedicarci con amore agli ammalati, ai più vulnerabili, come tanti medici hanno saputo fare con generosità e competenza in questo tempo. Ci chiama al coraggio dell’affrontamento, a percorrere una nuova via dentro al quotidiano, senza fuggire dall’incontro con gli altri e dai virus del Covid-19 e dell’indifferenza, ad avere fiducia nella provvidenza del Signore e nella sana prudenza più che alle nostre paure e ai nostri sospetti. Ci chiama poi a uno stile di vita più sobrio, aperto a vere relazioni, all’essenziale: si può vivere anche “in ciabatte” come nei mesi scorsi, senza dare troppa attenzione all’esteriorità, rinunciando al perfezionismo che ci fa correre dietro a tutto e a tutti per dedicarci semplicemente a dare il meglio di noi lì dove siamo, fedeli al nostro progetto di vita. Ci chiama anche a una fede nuova, più radicata nella verità della nostra persona. I mesi scorsi ci hanno detto che possiamo pregare anche in casa, anche per conto nostro: perché non continuare a vivere questa nostra dignità battesimale, magari pregando con il testo del Vangelo, Parola che ogni giorno viene proclamata nella Liturgia? Abbiamo avvertito la nostalgia della comunità cristiana: perché non essere pietre vive nelle nostre parrocchie, dando respiro a relazioni aperte e fiduciose con gli altri credenti, creando occasioni spicciole e quotidiane di incontro con loro e di semina della buona testimonianza del Vangelo al suo interno e nei luoghi dove viviamo?

Nella fede non possiamo non fare attenzione alla presenza del seminatore che cammina tra di noi e al seme che continua a gettare. Apriamo gli occhi a riconoscere il suo passaggio e il germogliare del seme e, grati della fiducia che ha in noi, facciamo posto ad ogni suo seme, pronti a partorire lo stelo e il frutto di quanto che egli già vede maturare.

– don Silvano, Casa Sant’Andrea