“Colui che non porta la propria croce non può essere mio discepolo” – XXIII domenica del tempo ordinario, anno C

“Colui che non porta la propria croce non può essere mio discepolo”

Nessuno di noi, prima di iniziare ad essere discepolo di Gesù, si è messo a fare i conti. Almeno credo che sia così per la maggioranza di noi. Siamo nati e cresciuti in un contesto di cristianità piuttosto marcato: i nostri genitori (o i nostri nonni), fin da piccoli, ci hanno insegnato il segno della croce, e poi le varie preghiere del Padre nostro, dell’Ave Maria, ecc., e ci hanno accompagnato a messa e al catechismo. Gesù abbiamo iniziato a conoscerlo, e a seguirlo, “con il latte materno”, senza quasi rendercene conto, così come abbiamo iniziato a parlare in italiano o a tifare per la squadra del cuore. Nessuno di noi si è messo a fare i conti prima di iniziare questo discepolato, domandandosi: mi conviene o non mi conviene? Ce la farò o non ce la farò a stare con Gesù fino alla fine? Ciascuno di noi si è ritrovato così, in cammino dietro a lui, senza fare dei conti prima…

La pagina di Vangelo di quest’oggi, invece, ci offre una prospettiva del tutto diversa. Gesù invita i suoi ascoltatori a fare bene i propri conti prima di mettersi alla sua sequela. E per spiegarsi, usa due immagini piuttosto forti: la costruzione di una torre e l’andare in guerra. Non fa forse due conti sui costi da sostenere, un costruttore, prima di mettersi a tirar su una torre? Non fa forse due conti sulle possibilità di vittoria, un re, prima di andare in battaglia? Sono due imprese entusiasmanti, avvincenti, ma non da poco, e nelle quali l’insuccesso può costare caro. Così è anche per l’“impresa” di seguire il Signore Gesù! Essere suoi discepoli è senz’altro bello come il poter gustare il panorama dall’alto di una torre; è bello come vincere una grande battaglia. Ma ha pure un costo che bisogna mettere in preventivo. Quale costo?

La rinuncia a quanto si ha di più caro. Dice Gesù: «Se uno non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo» (Lc 14,26); Se uno «non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo» (Lc 14,33). L’amore del discepolo per Gesù deve superare quello per i propri beni, ma anche quello per i propri affetti più cari. Certamente questo parlare di Gesù è forte e perentorio, ma non va senz’altro colto in senso escludente: se non sei capace di amare Gesù più di tutto il resto, allora sei tagliato fuori! Ha invece il senso di esortare ad un amore grande per lui. Perché è questo amore che anima, purifica e regge tutti gli altri amori. Ed è questo amore che garantisce la riuscita dell’impresa di essere suoi veri discepoli.

Ma un amore così grande, come ogni amore grande, costa! E talvolta costa appunto sacrifici e rinunce grandi. Penso che ciascuno di noi abbia in mente che, pur essendo tanto bello, amare davvero costa caro! Costa cara la fedeltà di amare la moglie o il marito “nella cattiva sorte”; costa notti insonni amare i figli quando sono piccoli o non sono in salute o sono causa di preoccupazione; costa caro amare i genitori quando diventano anziani, malati e… “insopportabili”.

L’amore per il Signore e per gli altri costa! Occorre ridirselo di tanto in tanto, metterlo in conto, per non accontentarsi di surrogati di amore che illudono ma non conducono a portare a compimento la grande impresa della propria vita!

Anche la seconda lettura, in un certo modo, lo mette in evidenza. Essere discepoli di Gesù, amare come lui, talvolta ha il costo del mandar giù … anche qualche bel rospo. È il caso di Filemone che viene invitato da San Paolo a riprendere con sé lo schiavo Onesimo. Onesimo era fuggito dal suo padrone probabilmente rubando anche del denaro per pagarsi la fuga fino a Roma. Entrato in contatto con San Paolo, però, si converte e diventa cristiano. Rimane un po’ con lui, rendendosi conto che il suo precedente comportamento nei confronti del padrone non era stato esemplare. In questa pagina, Paolo, amico personale di Filemone, gli chiede di perdonare la fuga di Onesimo, e di riaccettarlo, ora come fratello nella stessa fede. Immedesimandoci in Filemone, credo che possiamo capire che non sia stato così facile, e “senza costo”, compiere quel gesto di perdono, e riprendere in casa Onesimo.

In queste domeniche di settembre, stiamo meditando e pregando in special modo per le vocazioni. Stimolati da queste letture, mi pare interessante sottolineare l’intreccio tra costi e amore che è presente in ogni vocazione. Della vocazione, tante volte, si vedono soprattutto le fatiche, le rinunce, i costi… che senz’altro ci sono. E forse la vocazione oggi fa tanta paura ai giovani proprio per questo. Ma se ha dei costi, è appunto perché è una strada di amore: una strada di amore grande, nella sequela di Gesù. Ogni vocazione infatti è resa consistente, forte e vera proprio per il suo “contenuto di amore”. Di fronte all’amore, però, è un po’ meschino fermarsi a guardare solo ciò che costa! È piuttosto bello guardare a ciò che esso è, a ciò che dona, al modo in cui riempie la nostra vita… E così è anche per la vocazione: fermarsi a guardare solo ciò che costa rischia di farci perdere tutta la bellezza di ciò che una vita in risposta all’amore del Signore dona.

 – don Giovanni Molon